Uomini e no
di Marco Revelli(il manifesto,
20.09.2012)
Non è
un problema tecnico. Non c’era bisogno di particolari competenze ingegneristiche
o finanziarie per capire, fin dal 21 aprile di due anni fa, quando al Lingotto
fu presentato in pompa magna, che il piano «fabbrica italia» stava sulle nuvole.
Anche un bambino si sarebbe reso conto che quella produzione da aumentare dalle
650.000 auto del 2009 al milione e 400mila del 2014, quel milione di veicoli
destinati all’esportazione di cui «300.000 per gli stati uniti» (sic!), quel
raddoppio o poco meno delle unità commerciali leggere (dalle 150 alle 250mila)
in meno di quattro anni, erano numeri sparati a caso. Così come quei 20 miliardi
di euro d’investimenti in italia (i due terzi dell’intero volume mondiale del
gruppo fiat!), senza uno straccio d’indicazione sulla loro provenienza, senza un
piano finanziario serio e trasparente, erano un gigantesco buio gettato sul
tavolo verde.
Non è
nemmeno un problema politico. O meglio, non è solo un problema politico. I pochi
- pochissimi! - che annusarono il bluff e lo dissero o lo scrissero, non lo
fecero perché «ideologicamente» ostili alla Fiat, o all’«impresa», o al
«capitale». Se gli uomini della Fiom, unica organizzazione nell’intero panorama
sindacale, capirono al volo che quel patto leonino proposto da Sergio Marchionne
- sacrifici operai subito in cambio di una chimera lontana - era una trappola
mortale, non lo fecero perché politicamente schierati contro. Lo fecero perché,
appunto, erano «uomini», non marionette. Ben radicati nella realtà di fabbrica,
spalla a spalla con altri uomini e donne con cui condividevano difficoltà,
sentimenti e interessi.
Forse
sta tutta qui la soluzione dell’arcano del «caso Marchionne». In una questione
di «antropologia»: nella materialità di una condizione umana e di un sistema di
relazioni su cui è passata come un rullo compressore una drammatica «apocalisse
culturale». È sicuramente il prodotto di un’apocalisse culturale l’anti-eroe
eponimo della vicenda, l’ad Sergio Marchionne, svizzero fiscalmente, americano
aziendalmente, apolide moralmente. Così come lo sono i variopinti eredi della
famiglia Agnelli - i «furbetti cosmopoliti» di cui parla Della Valle - figure
ormai abissalmente distanti dal tipo umano dell’imprenditore del primo e anche
del secondo capitalismo.
Feroce, certo, spregiudicato e «creativamente
distruttore», calcolatore e cinico, ma non incorporeo, sradicato e
irresponsabile. Non avulso da ogni terra e da ogni luogo come sono i nuovi
manager globali e la nuova proprietà finanziarizzata, la cui parola vale
l’éspace d’un matin, e la cui appartenenza è sconosciuta («siamo qui. Anzi io
sono a Detroit, ma sto proprio partendo per l’Italia», ha detto l’a.d. Fiat a
Ezio Mauro nell’intervista pubblicata proprio ieri da Repubblica, erettasi per
l’occasione a informale tramite tra impresa e governo).
Marchionne non è un imprenditore in senso stretto. Non
sa «fare macchine» - macchine le fanno ancora i tedeschi, come la volkswagen che
ne produce 8 milioni all’anno e veleggia verso i 10 milioni, e che investe in
ricerca e sviluppo quasi 7 miliardi di euro, mentre lui va poco sopra i 2 per lo
più finanziati dalle banche italiane e impegnati per trasferire oltre oceano la
tecnologia fiat.
Marchionne sa fare soldi: nel solo 2010, l’anno di
Fabbrica Italia, ha provocato la più severa caduta sul mercato europeo mai
registrata (la fiat è scesa ad appena il 6,7%) ma in compenso ha portato il
proprio gruppo a guidare la classifica della redditività per gli azionisti, «con
un ritorno sul capitale del 33%»!
Vale
per lui quanto scritto da Richard Sennett sui manager globalizzati di ultima
generazione nel suo ultimo volume su la cultura del nuovo capitalismo: gente che
vive strutturalmente - in forza della distanza abissale, di reddito e di stile
di vita, che li separa dai luoghi e dalle figure del lavoro - la divaricazione
tra guida e responsabilità. Ambivalenti per ruolo e natura. Specializzati nel
pensare per «tempi brevi», sul raggio della prossima trimestrale, e a muoversi
per improvvisazioni più che per programmazione e pianificazione. Gente,
diciamolo, di cui non fidarsi!
Ma
prodotto di un’apocalisse culturale sono anche gli altri. Quelli che dovrebbero
stare di fronte a Marchionne, e che invece gli stanno dietro (o sotto): i
Bonanni, gli Angeletti, buona parte della politica, quasi tutta
l’amministrazione. Che cosa ha portato il capo della Cisl Raffaele Bonanni,
nell’aprile del 2010 a «brindare alla salute di Fabbrica Italia», definendola
«una minirivoluzione che potrebbe riportare l’italia ai vertici produttivi di un
tempo»? E ancora l’anno successivo a dichiarare: «sarà brusco, sarà crudo, ma
Marchionne è stato una fortuna per gli azionisti e i lavoratori della Fiat.
Grazie a dio c’è un abruzzese come Marchionne».
Che
cosa ha spinto il segretario della CISL torinese Nanni Tosco - che pure dovrebbe
essere un po’ più vicino ai luoghi della produzione - a sbilanciarsi definendo
il piano di Marchionne «un’opportunità irripetibile per il sindacato e
assolutamente da cogliere, evitando di infilarsi tra le ombre del ’piano b’»? E
il futuro sindaco fassino, alla vigilia del famigerato referendum sull’accordo a
Mirafiori, a dichiarare senza esitazione che se fosse stato un operaio FIAT
(sic) avrebbe votato sì? Ma è pressoché tutto il mondo politico ad aver
assistito ai preparativi della fuga di Marchionne - come ha scritto Loris
Campetti - «con il cappello in mano, spellandosi le mani ad applaudire le
prodezze di un avventuriero». Perché?
Non
erano così gli uomini di «prima». Non dico i Pugno (il leggendario segretario
della camera del lavoro di Torino venuto dagli anni duri), ma nemmeno i Cesare
Delpiano, gli Adriano Serafino, i Pierre Carniti, i responsabili della cisl
piemontese e nazionale che guidarono la riscossa operaia. Gente che sapeva
conoscere e valutare gli uomini che aveva di fronte, perché conosceva e
rispettava gli uomini di cui aveva la responsabilità. E non erano così i
Berlinguer, i Novelli, i Damico, ma nemmeno il democristiano Donat Cattin e
persino il vecchio sindaco Giuseppe Grosso... In mezzo, tra questi due diversi
«tipi umani» - tra queste opposte antropologie - è passata, come un vomere, la
lama di una sconfitta storica del mondo del lavoro. Di un arretramento epocale
nelle condizioni materiali del lavoro, nel livello delle remunerazioni e dei
salari dei lavoratori, e insieme nel ruolo stesso che il lavoro gioca nello
spazio sociale, nella sua capacità di parola e di presenza.
Luciano Gallino, nel suo splendido La
lotta di classe dopo la lotta di classe calcola che nel corso del ventennio
a cavallo tra il novecento e il nuovo secolo lo spostamento di ricchezza dal
monte salari al monte profitti sfiori i 250 miliardi di euro all’anno:
l’equivalente di numerose manovre finanziarie lacrime e sangue. E’ la misura
della perdita di potere del lavoro, che è stata anche sua «privatizzazione».
Espulsione del lavoro dalla sfera pubblica (quella in cui l’aveva riconosciuto
anche formalmente l’art. 1 della nostra costituzione), e suo confinamento nella
dimensione privata, senza voce e senza forza, regolata da rapporti di
comando-obbedienza individuali e irrimediabilmente asimmetrici. Di questa
dimensione pubblica del lavoro sono orfani, di questa sua privatizzazione (a cui
hanno assistito passivamente e collusivamente) sono figli, gli attuali politici
maggioritari e i sindacalisti in ginocchio davanti al Marchionne di
turno.
L’insostenibile leggerezza del loro essere è il
riflesso di una strutturale perdita di terreno. L’evaporare della politica e
della rappresentanza in generale (istituzionale o sindacale) nella nuvola eterea
dei sistematici luoghi comuni che avvolgono ormai la comunicazione pubblica come
un involucro asfissiante (la «cattura cognitiva» di cui parla Gallino), riflette
questa liquefazione.
Ora,
se questa massa liquida cui si è ridotta la politica nazionale e buona parte
dello schieramento sindacale viene chiamata a misurarsi, nelle forme ultimative
che la crisi impone, con la dimensione gassosa della nuova imprenditoria globale
- con il marchionne di turno - il risultato è scontato: essa è destinata ad
esserne dissolta e fagocitata irrimediabilmente, con la comune rovina di se
stessa e di noi tutti. Dovrebbe farci pensare il fatto che gli unici a
confrontarsi, con durezza, con Marchionne sono i «forti», altri «padroni» come
lui, mentre ministri, politici e sindacalisti di regime emettono flebili vagiti
e si rimettono, come dice Giorgio Airaudo, «alla clemenza della
corte».
Se una
speranza è data vedere, se una possibilità di rinascita si può immaginare, essa
consiste nei punti di resistenza di ciò che ha saputo restare «solido» nel
generale processo di dissolvimento. Mantenere un rapporto col proprio suolo,
culturale, sociale, produttivo. Per questo tanta ammirazione - anche al di fuori
del campo ristretto delle tradizionali sinistre - avevano saputo suscitare quel
40% di «inattuali» che a pomigliano avevano avuto il coraggio di dire no, e quel
quasi 50% di mirafiori. Per senso di dignità, prima che per calcolo di utilità.
Sapendo di giocare una partita disperata (perché il ricatto di Marchionne
lasciava solo l’alternativa tra «arrendersi o perire»). Oggi sappiamo che
vedevano più lontano degli altrettanto disperati operai che votarono sì. Come
vedeva lontano la fiom, a cui andrebbe fatto un monumento per aver saputo
mantenere aperto un varco, attraverso cui tentare di passare oltre. Di esistere
ancora, nel mondo che verrà.
Venerdì 21 Settembre,2012 Ore:
09:35