martedì 26 marzo 2013

R’cchjitèll e C’catèll (Orecchiette e Cavatelli)








 
 
 
 

R’cchjitèll e C’catèll

(Orecchiette e cavatelli)

 

Chi di noi, da ragazzo, non ha immaginato un avvenire comunque diverso dalla vita che stava vivendo? Come tutti anche io allora ho costruito con la fantasia un mio futuro denso di possibilità. Non che abbia dei grossi rimpianti, ma come sempre poi la realtà si rivela molto più complicata di quanto uno possa immaginarsi.

Pensando a quanto è difficile oggi mettere al mondo ed educare bene dei figli, spesso mi viene da pensare a come hanno fatto i nostri genitori.

La mia famiglia, per esempio, oltre a mio padre che faceva il contadino, bracciante agricolo per l’esattezza, era composta da mia madre Giuseppina (P’pp’nèll) e poi da quattro figli di cui una femmina e tre maschi. L’unico ad avere un lavoro e nemmeno fisso, ma a giornata, era mio padre. Lui era la  forza economica della famiglia e la sua paga doveva bastare per tutto e per tutti. Non sapevo, allora, quanto invece fosse importante la “gestione delle risorse” che era il difficilissimo compito affidato a  mia madre ed in genere alle donne nelle  famiglie simile alla mia.

Una delle cose che non riuscivo a capire e che ogni volta mi creava imbarazzo, era la capacità di mia madre di “trattare” i prezzi con i venditori.

Nel mio paese, ogni martedì, lungo la via Roma si svolgeva  il “mercato”.

Ed è così ancora oggi. Ogni venditore, sotto un proprio “gazebo” espone la sua mercanzia ponendosi lungo il lato destro della strada. Tutta le gente del paese passa, osserva  la merce esposta, legge i prezzi ed approfitta per parlare con qualche conoscente che magari non vede da qualche giorno. Già perché a San Paolo è difficile non incontrarsi, ma per le donne sempre indaffarate in casa, il mercato oltre alla messa in chiesa  è uno dei pochissimi momenti di ritrovo. Momento anche per un piacevole “scambio di notizie” su tutti e tutto. “Combà a quànt a vìnn sta rròbb?”  (A quanto la vendi questa roba?) Nonostante il cartellino del prezzo fosse ben visibile, la trattativa aveva sempre questo inizio.

Quando usciva per recarsi al mercato mia madre aveva ben fisso in mente come comportarsi: Primo: acquistare solo quello che serviva e secondo cercare di spendere il meno possibile e comunque mai oltre il preventivato.

Per questo motivo, si faceva un giro di ispezione di tutti i prodotti esposti e poi in un secondo tempo, dopo aver accuratamente selezionato il venditore e la mercanzia, cominciava le trattative. Cosa importante e non secondaria: non era solo il prezzo a determinare al scelta, ma soprattutto il rapporto di fiducia che si riusciva ad instaurare tra venditore ed acquirente.

“Combà a quànt a vìnn sta rròbb?”(Compare a quanto la vendi questa?)  “Signò u vìd u prèzz sta scrìtt” (Signora il prezzo è scritto).  “Méh, mò ‘nn ‘bbijànn!  ‘Cchiù bbàsc stà u Sanzv’rés, ca vènn a cchiù pòch! ( Beh, ora non incominciare! Più giù ho visto il venditore di San Severo che vende la stessa roba a prezzo più basso).

E si iniziava un tira e molla interminabile, con delle fasi della trattativa che ogni volta si ripetevano sino allo spasimo. Mia madre diceva: “Madònn quant sì carastùs! Tu m’ha trattà ‘bbòn p’cchè jì so cliènt e fàcc spés sèmp ‘ccàda te! (Madonna quanto è caro il tuo prezzo! Mi devi trattare bene perché sono tua cliente e vengo ad acquistare sempre da te!)

Signò tu vì sèmp qua p’cchè jì tèngh a rrobba bèll e u prèzz bbòn!! (Signora tu vieni sempre da me perché lo sai che ho la roba buona ed il prezzo migliore). E si andava avanti così fino a quanto uno dei due non cedeva. Quasi sempre a cedere era il venditore preso a volte per sfinimento! Però l’obbiettivo era raggiunto. Come diceva un antico proverbio “U prìm sparàgn jè n’a bbòna spés! (Il primo risparmio è una buona spesa!)

Un altro stratagemma  per “risparmiare” o se volete per “ottimizzare le risorse” era quello utilizzato per acquistare la carne o le verdure.

Dal macellaio, terminato l’acquisto, nel mentre si tiravano fuori i soldi per pagare si usava dire: “Mèh dàmm n’òss p’u bbròd” (Dammi anche un osso per il brodo) oppure dal verduraio si chiedeva “ Mìtt n’ate ddùji frònn. Mìtt’l  p’ ddìnt, fa u bòn pìs!!!”(aggiungi ancora qualcosa, ma già compreso nel prezzo, fai un buon peso). Classici sistemi per cercare di far rendere al massimo i pochi soldi a disposizione per gli acquisti. Il vero risparmio però era quello che si riusciva ad ottenere facendo in proprio gli alimenti di base e cioè pane e pasta.

Nelle nostre case quasi tutto era di  produzione; l’olio, il vino, i legumi le verdure, la frutta….e tutto rigorosamente di stagione. Ricordo per esempio che al tempo della mia infanzia c’erano molti fornai con i relativi forni.

Una volta terminata la produzione del fornaio, questi metteva a disposizione della gente il proprio forno ed ognuno faceva cuocere quello che aveva preparato pagando un modestissimo importo.. Noi ci servivamo del forno di Mast’ Chiandèll che credo esista ancora oggi. Si trovava, credo, in Via Trieste, una strada che iniziava dall’incrocio con via Malice e portava sino alla Chiesa di San Nicola. Ricordo per esempio che mia madre preparava “a tièll” con le patate o con le melanzane ed io le portavo al forno ed aspettavo sino all’avvenuta cottura per riportarle poi a casa per il pranzo. Mi piaceva molto osservare mia madre mentre preparava il pranzo o la cena e spesso ero solito “inzuppare il pane” nei vari sughetti che di volta in volta lei faceva. E puntualmente ogni volta venivo sgridato! Aveva un modo tutto suo di preparare le melanzane (I mulagnèn o fùrn). Tagliava il picciolo che non buttava, ma utilizzava alla fine come “stùpp’l” (cioè come tappo). Con un cucchiaio svuotava le melanzane facendo attenzione a non romperle. La polpa adeguatamente asciugata, tritata  e strizzata unita a due uova, formaggio, olio e pane grattugiato serviva per comporre il ripieno. Poi adagiate dritte  in un tegame, io le portavo al forno dove cuocevano per circa quaranta minuti. Ma, mia madre era insuperabile quando faceva a mano “i r’cch’jitèll” o  “ i c’catèll”. Era un rito!

Posava sull’asciugapanni “ u tav’lér”  (la spianatoia) e preparava l’impasto con mezzo chilo di farina di semola ed acqua. Con metodo molto personale creava un buco al centro della farina ammucchiata e vi versava lentamente dell’acqua. In questo modo formava l’impasto che lavorava per circa una decina di minuti. Poi, ricoperto da un panno lo lasciava riposare.

Dopo circa una mezz’ora, tagliava un pezzo di pasta che lavorava sulla spianatoia cosparsa di farina. Formava come un serpentello lungo di pasta dello spessore di un dito. Da questo poi, con coltello liscio e dalla punta arrotondata tagliava dei dadini. Per fare una orecchietta doc la tecnica è questa (almeno questa usava la mia mamma): con la punta del coltello tra indice e pollice della mano destra posizionarsi al centro circa del dadino di pasta, quindi, aiutandosi anche con l’indice della mano sinistra “strascinare” la pasta. Quindi rovesciare la “conchiglietta” formatasi girandola a mo’ di cappello sul dito pollice. In questo modo  si ottiene una orecchietta perfetta che riporta addirittura le venature in cui verrà catturato il sugo. L’orecchietta così formata va  depositata sopra “a spasèll” (una spianata di vimini) e lasciata riposare ad asciugarsi per l’intera notte.

Allo stesso modo vengono fatti “i c’catèll”, la differenza sta nel fatto che il dadino di pasta viene “strascinato” appoggiandovi sopra l’indice ed il medio.

In conclusione posso affermare senza tema di smentita che se è vero che era  l’uomo a portare in  casa il salario, altrettanto vero era che  la sapiente gestione della donna sapeva valorizzarlo al massimo. E, cosa non secondaria, il “mestiere di casalinga” mai apprezzato a sufficienza, forniva all’economia familiare un apporto di genuina manualità e di valori che col tempo  sono diventati sempre più rari fino ad essere oggi quasi introvabili.