martedì 5 febbraio 2013

A Passatèll!!

 

A Passatèll

Le giornate in campagna sembravano interminabili. Si cominciava al mattino prestissimo, quando il sole non era ancora sorto. Nelle notti di luna piena, addirittura, si poteva iniziare anche a notte fonda poiché la luna illuminava a giorno la notte. Si agiva in questo modo anche perché verso mezzogiorno o quando il sole cominciava a scottare, bisognava ritirarsi sotto un albero oppure all’ombra della casetta costruita per riporre gli attrezzi. Infatti era molto pericoloso esporsi ai raggi cocenti nelle ore della “controra” in quanto per il forte calore ed il vento di “faugno” si rischiavano insolazioni o perdite del respiro. Questa forzata siesta poteva durare anche fino alle ore sedici. Se allora il sole aveva attenuato la sua forza, si riprendeva il lavoro sino alle 18,30. Stiamo ovviamente parlando del periodo estivo in quanto con l’autunno o l’inverno le cose cambiavano radicalmente. La vita del “bracciante agricolo” aveva giorni e ritmi molto ben scanditi per cinque giorni la settimana. Alla sera del sabato però, finalmente la possibilità di spezzare la monotonia degli altri giorni.

Terminati i lavori in campagna, si tornava a casa di buona lena e dopo essersi lavati e sbarbati, smessi i panni da lavoro  ed indossati quelli della imminente domenica, prima dell’ora di cena, si usciva in piazza. La scusa era quella di andare a cercarsi il lavoro per la settimana successiva, la realtà come vedremo era ben diversa.

Nei nostri paesi del sud la piazza è sempre stato il luogo dove si concentravano le operazioni più importanti della vita locale. In piazza si definivano compravendite con semplici strette di mano scambiate davanti ad un buon bicchiere di vino. In piazza si definivano contratti di lavoro e paghe giornaliere. In piazza si risolvevano eventuali contese ed addirittura si definivano promesse di fidanzamenti e di matrimoni.

La piazza di San Paolo di Civitate, ancora oggi, è un lungo rettangolo attraversato dalla SS 16, una lunghissima arteria che attraversa tutta la Daunia e si spegne nel barese. Quasi al centro della piazza, ad angolo con la farmacia, parte una stradina in basolato che porta alla Chiesa di San Nicola ed oltre. Percorrendo questa strada, a circa un centinaio di metri dalla piazza, all’altezza dell’Arco della Pescheria, sul marciapiede opposto, anni fa era localizzata una cantina. Non era semplicemente un locale dove si vendeva o si consumava vino. Credo fosse l’unico posto, dopo i caffè, dove la gente poteva riunirsi e discutere davanti ad un boccale di vino. Era ritenuto un luogo “malfamato” dal parroco, ma soprattutto dalle mogli in quanto i frequentatori erano immediatamente additati come “ubriaconi”. Credo lo si possa definire un “pub” ante litteram in quanto dalle attigue “chiànghe” (macellerie) si poteva acquistare carne arrostita e torcinelli che poi venivano consumati nella cantina la quale  forniva anche il pane oltre al vino. Il posto in verità era snobbato dai notabili del paese ed era frequentato soprattutto dalla gente semplice che passava qualche ora in sana compagnia. Non appena si entrava nel locale si veniva investiti da un acre sapore di vino e di arrosto. Dense nuvole bluastre di nicotina  penetravano nei polmoni attraverso le narici e gli abiti si impregnavano di strani odori di fumo e di fritto. Eppure il locale, nonostante gli anatemi del parroco, era molto frequentato. C’era il musicista con la chitarra che canticchiava le canzoni dialettali di Matteo Salvatore e c’era il “sempliciotto” del paese che era oggetto di bonarie prese in giro da parte di tutti.

“ Andò, jànn a qua. Va da V’liàmm u chianghér, fàtt da mèzz chìl d’  ‘nd’rtén”. ( Antonio, vieni qua. Vai da William il macellaio e fatti dare mezzo chilo di “intrattieni”). Il poveretto che andava di corsa guadagnava anche qualche improperio dal macellaio che era sempre indaffarato. E la cosa finiva con una risata ed una bevuta. Oppure quando un nuovo arrivato, nell’atto di sedersi al tavolo diceva ai commensali: “Vèngh jùst mò da altròv…. ‘llà stà sciuccàn.  Andò va, va vìd pur tu” (Arrivo proprio adesso da “altrove” …la sta nevicando. – siamo in piena estate – Antonio vai , vai a vedere pure tu”) e  Antonio rispondeva  “ Jì ‘nnù mànch sàcc ndò  jè altròv” (Non lo so dov’è altrove). C’era chi giocava alla “morra” un vecchio gioco dove due persone mostrando il pugno devono indovinare il numero – da due a dieci - somma dei due numeri che ognuno di loro estrae improvvisamente dal pugno mostrando le proprie dita e gridando ad alta voce il numero somma. Ogni volta che uno indovinava, segnava un punto e procedeva a tracannare un bicchiere di vino.

Ma alla cantina si andava soprattutto in gruppo quando si decideva di giocare alla “passatella”.

E’ questo un antichissimo gioco che trova addirittura le origini nella Roma latina. Sembra che ne parlino addirittura Catone ed Orazio narrando del  “rex vini”.  Per come è strutturato e per come si svolge il gioco, risulta evidente che se non lo si prende con lo spirito giusto, può diventare una occasione di violenti scontri. La tradizione narra di moltissime amicizie rotte e violenti liti terminate drammaticamente a coltellate. Forse è per questo che, lentamente, questo gioco è andato scomparendo. Fatto con le regole precise e con la giusta predisposizione può far trascorrere una serata in piacevole ed allegra compagnia. Ovviamente non per tutti. Pur non essendo neppure oggi un frequentatore abituale di cantine osterie o pub, ho visto alcune volte come veniva praticato. Innanzi tutto ci si riuniva in comitiva. Più si era, meglio riusciva il gioco. Si decideva quanto vino e quanta carne e pane  acquistare dividendo la spesa equamente tra tutti i partecipanti. Lo scopo del gioco è quello di fare in modo che si creino due situazioni: qualcuno dovrà rimanere

“iùlm” cioè potrà solo mangiare ma non berrà mai; un altro invece alla fine avrà bevuto tanto che risulterà ubriaco fradicio. Questo succede perché non ci si  può rifiutare di bere. Sembra un gioco banalmente semplice, ma non è così.  Quando tutto era pronto ed ognuno dei commensali aveva preso posto attorno al tavolo rigorosamente in legno ricoperto da un telo di “incerata” allora si dava inizio al gioco. Si cominciava sorteggiando “il mazziere” il quale a seconda del numero dei giocatori distribuiva le carte. A San Paolo le carte erano rigorosamente “le napoletane”. Quindi si confrontava il punteggio ottenuto. I punti delle carte erano quelli della “primiera”. Tutte le figure avevano valore dieci, il 7 valeva ventuno; il 6 valeva 18; l’asso valeva sedici, poi di seguito il 5 quindici, il 4 quattordici e così per il 3 e per il 2. Ovviamente il punto più altro era “ u frùsc” cioè avere tutte le carte dello stesso colore o seme. Seguiva la “primiera” cioè avere le carte tutte di colore o seme diverso. Infine il mazziere stabiliva una carta precisa e chi la possedeva assumeva il ruolo della “morte”. La morte rimaneva in incognito sino a quanto non decideva di palesarsi.

Il punto più alto assumeva la figura di “padrone”. Il secondo punto più alto diventava “il sotto”. Definite queste figure iniziava il gioco vero e proprio.

Il Padrone versava il primo bicchiere di vino e lo offriva al mazziere che bevendolo terminava la sua funzione. Il secondo ed il terzo bicchiere erano destinati al Padrone ed al Sotto che, in questo modo, affermavano la loro autorità. Ricordiamo che la bevuta doveva essere effettuata d’un solo fiato. Non poteva cioè essere interrotta, pena il pagamento totale del vino da consumare. Dopo questi primi bicchieri, il padrone ne versava uno e diceva “Stù ‘bbucchér d’ vìn, u vulèss da a ‘Gg’nìll” (Questo bicchiere di vino, vorrei offrirlo a Gino). A questo punto Gino prendeva il bicchiere e rivolgendosi al Sotto chiedeva: “ Ch’ ‘ll’cènz! Pòzz vév?” (con vostra licenza. Posso bere?). Se il Sotto acconsentiva e la Morte non interveniva palesandosi, allora Gino poteva bere. Il gioco era tutto basato sulla dialettica, su ammiccamenti e segreti intese tra Padrone, Sotto e la Morte. Per esempio se il Padrone avesse detto “Stù ‘bbucchér, u vulèss da a ‘Ndonij” senza aggiungere “d’ vìn” intendendo così di dare ad Antonio il bicchiere, ma non il vino in esso contenuto. Se con il consenso del Sotto ed il tacito assenso della Morte, Antonio avesse bevuto, avrebbe commesso grave infrazione ed era destinato a pagare tutto il vino da consumare in quanto era stato assegnato il bicchiere e non il vino in esso contenuto. Oppure all’offerta del Padrone, quando il giocatore chiedeva al sotto “licenza di bere” , il Sotto poteva dire: “ puoi annusarlo, guardarlo, ma non puoi berlo; Devi poi passarlo a Tizio”.  Poteva inoltre capitare che il Sotto non condividesse l’assegnazione fatta dal Padrone. A quel punto era costretto a bere lui il bicchiere di vino oppure ad assegnarlo ad un altro giocatore.  A meno che non intervenisse la Morte. La Morte ha l’autorità di togliere la bevuta a chiunque, tranne  al Padrone ed al mazziere,  e di fare proprio il bicchiere in palio. Regola fondamentale è quella di esprimere chiaramente ed a voce alta la propria affermazione, domanda o risposta. Il gioco procedeva così tra assegnazioni, bevute, assensi e dinieghi. La casistica di quanto poteva accadere era veramente indefinita. Esaurito tutto il vino,  il gioco terminava. Inevitabilmente si riscontava un giocatore che non aveva bevuto nulla che si diceva  “ è stèt fatt iulm” ( era stato fatto olmo). Nessuno sa con precisione da cosa è stato originato questa espressione. Sta di fatto che chi veniva fatto “iùlm” era colui che non aveva bevuto nulla durante tutto il gioco. E questo era un grave affronto oltre che una enorme cattiveria in quanto il mangiare salato e pepato  della serata rendeva ancora più insopportabile l’affronto. D’altro canto vi era sempre qualche giocatore che finiva ubriaco fradicio per il troppo bere. Ed anche questo era un affronto in quanto il malcapitato veniva portato a casa di peso e spesso stava male anche per i successivi giorni oltre a prendersi le urla della moglie. Comunque tutto finiva così senza alcun astio, ma con la semplice promessa di vendicarsi in successive passatelle. Molti anni dopo, negli anni del mio liceo a Bari, capitò anche a me di partecipare al gioco. Questa volta era fatto con la birra e aveva nome “ u z’mbarìdd”.

Nessun commento:

Posta un commento