A Passatèll
Le giornate in campagna sembravano
interminabili. Si cominciava al mattino prestissimo, quando il sole non era
ancora sorto. Nelle notti di luna piena, addirittura, si poteva iniziare anche
a notte fonda poiché la luna illuminava a giorno la notte. Si agiva in questo
modo anche perché verso mezzogiorno o quando il sole cominciava a scottare,
bisognava ritirarsi sotto un albero oppure all’ombra della casetta costruita
per riporre gli attrezzi. Infatti era molto pericoloso esporsi ai raggi cocenti
nelle ore della “controra” in quanto per il forte calore ed il vento di
“faugno” si rischiavano insolazioni o perdite del respiro. Questa forzata
siesta poteva durare anche fino alle ore sedici. Se allora il sole aveva
attenuato la sua forza, si riprendeva il lavoro sino alle 18,30. Stiamo
ovviamente parlando del periodo estivo in quanto con l’autunno o l’inverno le
cose cambiavano radicalmente. La vita del “bracciante agricolo” aveva giorni e
ritmi molto ben scanditi per cinque giorni la settimana. Alla sera del sabato
però, finalmente la possibilità di spezzare la monotonia degli altri giorni.
Terminati i lavori in campagna, si tornava
a casa di buona lena e dopo essersi lavati e sbarbati, smessi i panni da lavoro
ed indossati quelli della imminente
domenica, prima dell’ora di cena, si usciva in piazza. La scusa era quella di
andare a cercarsi il lavoro per la settimana successiva, la realtà come vedremo
era ben diversa.
Nei nostri paesi del sud la piazza è
sempre stato il luogo dove si concentravano le operazioni più importanti della
vita locale. In piazza si definivano compravendite con semplici strette di mano
scambiate davanti ad un buon bicchiere di vino. In piazza si definivano
contratti di lavoro e paghe giornaliere. In piazza si risolvevano eventuali
contese ed addirittura si definivano promesse di fidanzamenti e di matrimoni.
La piazza di San Paolo di Civitate, ancora
oggi, è un lungo rettangolo attraversato dalla SS 16, una lunghissima arteria
che attraversa tutta la Daunia e si spegne nel barese. Quasi al centro della
piazza, ad angolo con la farmacia, parte una stradina in basolato che porta
alla Chiesa di San Nicola ed oltre. Percorrendo questa strada, a circa un
centinaio di metri dalla piazza, all’altezza dell’Arco della Pescheria, sul
marciapiede opposto, anni fa era localizzata una cantina. Non era semplicemente
un locale dove si vendeva o si consumava vino. Credo fosse l’unico posto, dopo
i caffè, dove la gente poteva riunirsi e discutere davanti ad un boccale di
vino. Era ritenuto un luogo “malfamato” dal parroco, ma soprattutto dalle mogli
in quanto i frequentatori erano immediatamente additati come “ubriaconi”. Credo
lo si possa definire un “pub” ante litteram in quanto dalle attigue “chiànghe”
(macellerie) si poteva acquistare carne arrostita e torcinelli che poi venivano
consumati nella cantina la quale forniva
anche il pane oltre al vino. Il posto in verità era snobbato dai notabili del
paese ed era frequentato soprattutto dalla gente semplice che passava qualche
ora in sana compagnia. Non appena si entrava nel locale si veniva investiti da
un acre sapore di vino e di arrosto. Dense nuvole bluastre di nicotina penetravano nei polmoni attraverso le narici
e gli abiti si impregnavano di strani odori di fumo e di fritto. Eppure il
locale, nonostante gli anatemi del parroco, era molto frequentato. C’era il
musicista con la chitarra che canticchiava le canzoni dialettali di Matteo
Salvatore e c’era il “sempliciotto” del paese che era oggetto di bonarie prese
in giro da parte di tutti.
“ Andò, jànn a qua. Va da V’liàmm u
chianghér, fàtt da mèzz chìl d’
‘nd’rtén”. ( Antonio, vieni qua. Vai da William il macellaio e fatti
dare mezzo chilo di “intrattieni”). Il poveretto che andava di corsa guadagnava
anche qualche improperio dal macellaio che era sempre indaffarato. E la cosa
finiva con una risata ed una bevuta. Oppure quando un nuovo arrivato, nell’atto
di sedersi al tavolo diceva ai commensali: “Vèngh jùst mò da altròv…. ‘llà stà
sciuccàn. Andò va, va vìd pur tu”
(Arrivo proprio adesso da “altrove” …la sta nevicando. – siamo in piena estate
– Antonio vai , vai a vedere pure tu”) e
Antonio rispondeva “ Jì ‘nnù
mànch sàcc ndò jè altròv” (Non lo so
dov’è altrove). C’era chi giocava alla “morra” un vecchio gioco dove due
persone mostrando il pugno devono indovinare il numero – da due a dieci - somma
dei due numeri che ognuno di loro estrae improvvisamente dal pugno mostrando le
proprie dita e gridando ad alta voce il numero somma. Ogni volta che uno
indovinava, segnava un punto e procedeva a tracannare un bicchiere di vino.
Ma alla cantina si andava soprattutto in
gruppo quando si decideva di giocare alla “passatella”.
E’ questo un antichissimo gioco che trova
addirittura le origini nella Roma latina. Sembra che ne parlino addirittura
Catone ed Orazio narrando del “rex
vini”. Per come è strutturato e per come
si svolge il gioco, risulta evidente che se non lo si prende con lo spirito
giusto, può diventare una occasione di violenti scontri. La tradizione narra di
moltissime amicizie rotte e violenti liti terminate drammaticamente a
coltellate. Forse è per questo che, lentamente, questo gioco è andato
scomparendo. Fatto con le regole precise e con la giusta predisposizione può
far trascorrere una serata in piacevole ed allegra compagnia. Ovviamente non
per tutti. Pur non essendo neppure oggi un frequentatore abituale di cantine
osterie o pub, ho visto alcune volte come veniva praticato. Innanzi tutto ci si
riuniva in comitiva. Più si era, meglio riusciva il gioco. Si decideva quanto
vino e quanta carne e pane acquistare
dividendo la spesa equamente tra tutti i partecipanti. Lo scopo del gioco è
quello di fare in modo che si creino due situazioni: qualcuno dovrà rimanere
“iùlm” cioè potrà solo mangiare ma non
berrà mai; un altro invece alla fine avrà bevuto tanto che risulterà ubriaco
fradicio. Questo succede perché non ci si
può rifiutare di bere. Sembra un gioco banalmente semplice, ma non è
così. Quando tutto era pronto ed ognuno
dei commensali aveva preso posto attorno al tavolo rigorosamente in legno
ricoperto da un telo di “incerata” allora si dava inizio al gioco. Si
cominciava sorteggiando “il mazziere” il quale a seconda del numero dei giocatori
distribuiva le carte. A San Paolo le carte erano rigorosamente “le napoletane”.
Quindi si confrontava il punteggio ottenuto. I punti delle carte erano quelli
della “primiera”. Tutte le figure avevano valore dieci, il 7 valeva ventuno; il
6 valeva 18; l’asso valeva sedici, poi di seguito il 5 quindici, il 4
quattordici e così per il 3 e per il 2. Ovviamente il punto più altro era “ u
frùsc” cioè avere tutte le carte dello stesso colore o seme. Seguiva la
“primiera” cioè avere le carte tutte di colore o seme diverso. Infine il
mazziere stabiliva una carta precisa e chi la possedeva assumeva il ruolo della
“morte”. La morte rimaneva in incognito sino a quanto non decideva di
palesarsi.
Il punto più alto assumeva la figura di
“padrone”. Il secondo punto più alto diventava “il sotto”. Definite queste
figure iniziava il gioco vero e proprio.
Il Padrone versava il primo bicchiere di
vino e lo offriva al mazziere che bevendolo terminava la sua funzione. Il
secondo ed il terzo bicchiere erano destinati al Padrone ed al Sotto che, in
questo modo, affermavano la loro autorità. Ricordiamo che la bevuta doveva
essere effettuata d’un solo fiato. Non poteva cioè essere interrotta, pena il
pagamento totale del vino da consumare. Dopo questi primi bicchieri, il padrone
ne versava uno e diceva “Stù ‘bbucchér d’ vìn, u vulèss da a ‘Gg’nìll” (Questo
bicchiere di vino, vorrei offrirlo a Gino). A questo punto Gino prendeva il
bicchiere e rivolgendosi al Sotto chiedeva: “ Ch’ ‘ll’cènz! Pòzz vév?” (con
vostra licenza. Posso bere?). Se il Sotto acconsentiva e la Morte non
interveniva palesandosi, allora Gino poteva bere. Il gioco era tutto basato
sulla dialettica, su ammiccamenti e segreti intese tra Padrone, Sotto e la
Morte. Per esempio se il Padrone avesse detto “Stù ‘bbucchér, u vulèss da a
‘Ndonij” senza aggiungere “d’ vìn” intendendo così di dare ad Antonio il
bicchiere, ma non il vino in esso contenuto. Se con il consenso del Sotto ed il
tacito assenso della Morte, Antonio avesse bevuto, avrebbe commesso grave
infrazione ed era destinato a pagare tutto il vino da consumare in quanto era
stato assegnato il bicchiere e non il vino in esso contenuto. Oppure all’offerta
del Padrone, quando il giocatore chiedeva al sotto “licenza di bere” , il Sotto
poteva dire: “ puoi annusarlo, guardarlo, ma non puoi berlo; Devi poi passarlo
a Tizio”. Poteva inoltre capitare che il
Sotto non condividesse l’assegnazione fatta dal Padrone. A quel punto era
costretto a bere lui il bicchiere di vino oppure ad assegnarlo ad un altro
giocatore. A meno che non intervenisse
la Morte. La Morte ha l’autorità di togliere la bevuta a chiunque, tranne al Padrone ed al mazziere, e di fare proprio il bicchiere in palio.
Regola fondamentale è quella di esprimere chiaramente ed a voce alta la propria
affermazione, domanda o risposta. Il gioco procedeva così tra assegnazioni,
bevute, assensi e dinieghi. La casistica di quanto poteva accadere era
veramente indefinita. Esaurito tutto il vino, il gioco terminava. Inevitabilmente si
riscontava un giocatore che non aveva bevuto nulla che si diceva “ è stèt fatt iulm” ( era stato fatto olmo).
Nessuno sa con precisione da cosa è stato originato questa espressione. Sta di
fatto che chi veniva fatto “iùlm” era colui che non aveva bevuto nulla durante
tutto il gioco. E questo era un grave affronto oltre che una enorme cattiveria
in quanto il mangiare salato e pepato
della serata rendeva ancora più insopportabile l’affronto. D’altro canto
vi era sempre qualche giocatore che finiva ubriaco fradicio per il troppo bere.
Ed anche questo era un affronto in quanto il malcapitato veniva portato a casa
di peso e spesso stava male anche per i successivi giorni oltre a prendersi le
urla della moglie. Comunque tutto finiva così senza alcun astio, ma con la
semplice promessa di vendicarsi in successive passatelle. Molti anni dopo,
negli anni del mio liceo a Bari, capitò anche a me di partecipare al gioco.
Questa volta era fatto con la birra e aveva nome “ u z’mbarìdd”.
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