Si impara sempre dopo
Il
lunedì per me era veramente un dramma! A casa mia si mangiava una volta al
giorno e quasi sempre di sera quando anche mio padre rientrava dal lavoro.
C’era un menù che nessuno aveva deciso, ma da tutti sembrava tacitamente
condiviso. Il menù si ripeteva settimanalmente.
Tutte
le mattine si cominciava la giornata con una bella tazza di latte caldo con
dentro il pane raffermo diventato troppo duro. Non sapevamo neanche cosa
fossero i biscotti! Mai fatto colazione con la presenza di mio papà anche
perché a quell’ora, lui aveva già fatto almeno tre ore di lavoro.
Di
solito al mezzogiorno, dopo la scuola, si mangiava pane e pomodoro con olio e
sale.
Ne
mangiavo tanto, sia con il pane a fette sia con quello che dialettalmente si
chiamava “ u cuzzètt”.
In
pratica, da una forma rotonda di pane si taglia un pezzo e si scava la mollica
fino a ricavarne un foro centrale. Poi si bagna ben bene il bordo con dei
pomodorini spremuti la buccia dei quali viene inserita nel foro praticato
togliendo la mollica. Si procede in questo modo sino ad inzuppare
abbondantemente il bordo del pane con tre o quattro pomodori. Poi si innaffia
tutto con olio d’oliva rigorosamente Sanpaolese e con sale. Volendo si può
aggiungere a piacere alcuni fiocchi di origano ed il pranzo è servito!
Questo
era il mio pranzo quasi tutti i giorni della settimana esclusa la domenica.
E con
lo stesso sistema si poteva riempire il pane con qualsiasi altra cosa
commestibile.
La
sera però, quando il capofamiglia rientrava dal lavoro, si mangiava tutti
insieme. Era un momento solenne e molto importante. La famiglia tutta si
riuniva attorno al tavolo. Mamma, papà, i nonni ed anche fratelli e sorelle.
Nessuno doveva tardare o mancare. Io che ero il più piccolo dovevo aiutare ad
apparecchiare insieme a mia sorella che, in quanto donna, condivideva con la
mamma tutte le incombenze di casa. Sin da piccolo mi sono sempre ribellato a
questa situazione e ricordo di avrene prese tante, non solo da mio padre, ma
anche da mia madre. Fortuna che c’era mia nonna che mi ha sempre fatto da
scudo. Da piccolo ricordo che non avevamo ognuno il proprio piatto, ma era uso
mangiare attingendo tutti da uno stesso piatto posto centralmente nel tavolo.
Ora si capisce subito che quando c’era qualcosa di buono si faceva a gara in
velocita di presa. Il piatto dal centro del tavolo sembrava animarsi come in
una seduta spiritica e muoversi velocemente in diverse direzioni a seconda di
chi allungava la forchetta.
Io,
essendo il più piccolo ed anche il più corto di braccia, spesso e volentieri
restavo spiazzato. Così ho imparato che la sera bisogna stare “leggeri”….a
volte addirittura digiuni! Tuttavia ero avvantaggiato da questo quando si
cucinavano pietanze poco appetite.
Poi
una sera anche mia madre cominciò ad usare i piatti singoli e mi divenne
difficile mascherare di non gradire certi piatti. Il menù settimanale
prevedeva: Il lunedì verdura, di qualsiasi tipo: Cicorie raccolte in campagna,
verza, cavoli oppure “ i sìn’p” i “mariùl” e chi più ne ha più ne metta, ma tutto
rigorosamente colto dal nostro campo. Il martedì c’era la pastasciutta come
pure il giovedì. Mercoledì e venerdì si cucinava pasta con legumi ( fagioli,
ceci, circerchie, lenticchie e fave). A volte il venerdì mia madre cuoceva il
pesce, ma molto di rado perché, come la carne, costava troppo. Il sabato di solito era brodo o pasta con le
patate. La domenica era festa grande prima. Si mangiava tutti insieme anche a
mezzogiorno e soprattutto perché mia madre cucinava la pastasciutta con il sugo
di carne e per secondo mangiavamo la carne cotta nel sugo. Il sugo fatto con il
“castrato” era buonissimo anche se molto grasso. Ci inzuppavamo abbondantemente
il pane e ed alla fine avevamo tutti il muso che sembrava come se avessimo
messo il rossetto. La carne, come il pesce, non era nelle nostre possibilità
quindi la mangiavamo una volta alla settimana. Anzi addirittura per abbattere i
costi, mia madre allevava sul terrazzo le galline. Poi si affezionava ed ogni
volta che doveva ucciderle era un dramma. Una volta riuscì a farsi regalare un
agnello che allevò con tanto amore. Gli aveva messo nome “munachèll” e si era
talmente affezionata che non riuscì ad ucciderla…ma la diede al macellaio
affinché provvedesse lui.
Come
dicevo all’inizio, per me il lunedì era una giornata di calvario. Non volevo
assolutamente mangiare le verdure e soprattutto le cicorie di campagna che
hanno quel gusto amarognolo che non riuscivo a digerire. La mamma le cuoceva
insieme a dei pomodorini e ci metteva alla fine dell’olio crudo fatto con le
olive del nostro uliveto “nelle coppe”. Brodose affinché ci inzuppassimo il
pane duro, ma per me era un dramma ogni volta. E siccome “ o mangi questa
minestra o salti dalla finestra!” ogni volta prendevo tanti di quegli
schiaffoni e piangevo tante di quelle lacrime che a volte veramente avrei
preferito uscire dalla finestra.
Quanto
rimpiango quel sano mangiare di allora! Quei sapori, quel gusto di cose semplici ma
sane oggi le desidero ma non riesco più a trovarle. Eppure mi reputo fortunato
perché ho sposato una donna della mia terra che è molto brava in cucina, ma il
tempo oggi è tiranno. Sono spariti i mercati di quartiere oggi è tutto
“supermercato”. Il cibo che da bambini
serviva per crescere, spesso oggi è la causa di molte malattie che portano alla
morte.. Oggi tornerei volentieri nei campi a raccogliere le cicorie , “i
vampascùl” “ i lattuchèll” e la frutta!
Le mele cotogne, “i pera paccùn” i cascavìll “i m’lèll” “i fìcura San Pìtr” “ i trìgn”. Tornerei volentieri a
riapprezzare quei sapori, prenderei ancora volentieri degli schiaffoni per avere
quelle cicorie. Non per un romantico ritorno all’età dei giochi, ma solamente
perché ho capito troppo tardi quello che avevo perso. Purtroppo si impara
sempre dopo!
Anche
questo fa parte del gioco della vita.
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