martedì 19 febbraio 2013

LA MIETITURA




La mietitura

In un paese a chiara connotazione agricola, i tempi del  vivere quotidiano sono scanditi dalle stagioni e dalle lavorazioni che si effettuano nei campi.

Vi è il tempo della semina e il tempo del raccolto. In mezzo,  tutta una lunga serie di lavori per rendere il raccolto il più proficuo possibile.

La cosa più importante però è che nella vita contadina anche il lavoro può diventare occasione per stare insieme. Due i momenti fondamentali del raccolto: La vendemmia in autunno, di cui ho già scritto, e la mietitura in estate nei mesi tra giugno e luglio.

Tempo fa, i terreni dietro la villa comunale erano distese enormi di seminato a grano. E all’imbiondire delle spighe, i campi si tingevano di giallo punteggiati dal rosso dei papaveri. Quando arrivava il periodo di maturazione si doveva procedere alla mietitura.

Erano gli anni in cui non esisteva ancora la “mietitrebbiatrice”, quella macchina cioè capace di provvedere da sola, e con un unico passaggio, a tagliare le spighe, pulirle e restituire il grano già nei sacchi.

Il grano veniva mietuto a mano e poi “trebbiato” con un particolare procedimento usando la “trebbiatrice”.

Siccome però tutto il lavoro non si esauriva in una unica giornata per l’estensione del terreno da mietere e siccome gli appezzamenti potevano appartenere a più proprietari, non di rado capitava che più famiglie unissero le proprie forze a quelle dei braccianti assunti allo scopo – “ i jurnatér” ( quelli a giornata). C’erano famiglie proprietarie del terreno, altre che lo avevano in affitto ed infine coloro che lo avevano “a mèzza trìji” ( al 50%). Si riusciva così a formare uno squadrone di persone ognuno con il proprio compito preciso. C’erano i mietitori veri e propri – i m’t'tùr - ; c’era poi chi aveva il compito di legare in “manòcchij” (covoni) le spighe tagliate; chi doveva raccogliere “i manòcchij”  sui traìni  e portarli in un punto prestabilito dove veniva messa in piano la trebbiatrice. Altri si occupavano di scaricare “i manòcchji” con “i fòrch” (le forche) e instradarli nel nastro trasportatore per essere trebbiate.

Ma cominciamo dall’inizio!

In quei giorni ci si alzava di buon ora. Con la luna alta, anche la notte era illuminata ed era preferibile lavorare con il fresco della notte piuttosto che con il sole di luglio. La preparazione avveniva già dal giorno che precedeva l’inizio  dei lavori. I mietitori  tiravano fuori le falci precedentemente fatte affilare da “u ’mmòlafruv’c” (l’arrotino), i proprietari dei traìni  controllavano bene “ a mart’llìn” ( il freno) e “a lantèrn a p’trolij” ( la lanterna) e “u scurièt” (la frusta).

La processione dei carri con la gente a bordo iniziava molto prima dell’alba. Giunti sul luogo ognuno prendeva posizione. I mietitori, con la falce affilata nella mano destra, si disponevano in riga all’inizio del campo. La mano sinistra, con le dita protette da anelli di canna forati e l’avambraccio protetto da una ricopertura in cuoio, veniva adoperata per abbracciare il fascio di spighe da tagliare. Gli uomini indossavano pantaloni lunghi e scarponi, mentre le donne indossavano scarpe pesanti e spesse calze per proteggersi dai graffi delle “r’stòcc” (stoppie). Graffi (ràng'ch) di cui erano piene le gambe dei ragazzotti come me (còss tutt rang'chèt), con i “cav’zùn cùrt” (calzoni corti) il cui compito era quello di “pròji u cic’n d’ l’àcqu” (portare l’acqua) oppure “a damm’ggianètt d’ vìn” la damigiana da cinque litri con il vino e di riempire di paglia, alla bisogna,  “ a sacchètt” (sacchetto) appeso al collo dei muli o dei cavalli. Entrambe le bevande dovevano essere poi riposte in luogo protetto per mantenerle fresche. I momenti di pausa, durante la giornata, erano tre. C’era una prima colazione – U rompadd’jùn – (rompi digiuno)  fatta con il pane avvolto in una “tuvàgghij” bianca  oppure a pallini colorati di cotone. Pomodoro, formaggio, e cipolla erano il companatico. Tutto innaffiato con vino rosso. A mezzogiorno si pranzava con gli stessi alimenti ed in più si faceva un’insalata di pomodori oppure si faceva “l’acquasèl” cioè pane duro bagnato in acqua cosparso con olio, pomodori sale ed origano. Infine la cena che in più aveva per primo la pastasciutta.

Iniziavano i mietitori che tagliavano i primi fasci di spighe e  le poggiavano per terra. Seguivano coloro che, raccolti più fasci di spighe, li legavano insieme a formare “i manòcchji” e li ponevano per terra con le spighe rivolte verso l’alto. Questo in genere era il compito delle donne. Quando il grano tagliato cominciava ad avere una certa consistenza, entravano in azione quelli armati di carretti e forche, che caricavano “i manòcchji”  “ sòp i carr’ttùn” e li portavano in uno spiazzo a formare “i mét”  cioè dei grandi ammassi circolari pronti per essere trebbiati. Terminata la mietitura dei campi, se la trebbiatrice era già stata posizionata, si procedeva a trebbiare il grano, altrimenti si doveva aspettare qualche giorno ed in quel caso il grano era “uàrdèt nòtt e jùrn”  ( guardato notte e giorno).

Intanto nei campi iniziava la “spigolatura” . Le donne procedevano ripassando tutti i campi e raccogliendo manualmente le poche spighe rimaste a terra o non tagliate. Questa operazione molto spesso veniva fatta da donne che non avevano terreni propri e che in questo modo potevano alleviare la situazione di indigenza in cui versavano. Spessissimo anche noi ragazzotti eravamo interessati a questa raccolta -   “cciapp’rijà” – perché ci permetteva di guadagnare qualche spicciolo. Il lavoro della mietitura era in realtà molto pesante in quanto si doveva procedere sempre in posizione china, sotto il sole cocente coperti da abbigliamento non propriamente estivo. Il sudore spesso misto alle pagliuzze di grano rendeva particolarmente sgradevole e fastidioso questo mestiere. Ma comunque era un’occasione per stuzzicarsi, cantare, spettegolare e far nascere amori. In tutte queste cose le donne erano bravissime e molto spesso intonavano canzoni, a cui cambiando le parole, facevano raccontare cose accadute o prossime ad accadere.

La fase successiva era la trebbiatura. La trebbiatrice era un macchinario molto complesso. La ricordo di colore rosso fuoco. Da una parte in alto vi era un grosso foro dal cui contorno pendeva una sorta di larga manica di stoffa: da qui usciva la paglia residua. In basso c’era una “bocca” attraverso cui passava il grano che veniva raccolto in sacchi di canapa o di juta. Dalla parte opposta e a debita distanza veniva posto un “motore” che con un giogo di cinghie e pulegge trasferiva il moto alla trebbiatrice. Il tutto doveva essere perfettamente in piano e ben livellato. La presenza di un meccanico metteva al riparo da possibili guasti degli apparecchi. Quando tutto era pronto si procedeva. Avviato il motore e messe in movimento le cinghie e le pulegge, i covoni di grano, con le forche, venivano manualmente caricati dalle “mét” su di un nastro autotrasportatore che le introduceva nella trebbiatrice, la quale con un rumore assordante procedeva alla divisione dei chicchi di grano dalla paglia. I chicchi, a “tùmm’l” ( misura di circa 45 kg), venivano depositati in dei sacchi di canapa o di iuta legati, quando pieni, con “i làcc d’ mach’n” (lacci). I sacchi così riempiti e legati venivano pesati sulla “ a bbascùglij”  ( la bascula). La paglia dispersa sullo spiazzo veniva raccolta da persone che utilizzavano un attrezzo definito “a mar’nèr”. Era cioè un attrezzo formato da una trave lunga circa un metro e mezzo- due, con due anelli ai bordi e dei pioli centrali tipo un pettine. Veniva legato al collo di un cavallo ed un operaio, ponendosi sopra l’asse, si faceva trainare per il piazzale radunando così la paglia dispersa in un punto preciso deve poi venivano confezionate le “balle”. Terminato il lavoro, ci si ritrovava tutti insieme nello spiazzo ed il proprietario ( o i proprietari)  stabiliva una serata durante la quale si sarebbe festeggiato cenando tutti insieme tra canti e balli – u chèp canèl - . Di rito si cucinava la pasta al forno (a sàgn) ed un secondo con arrosto di agnello ed insalata. Vino rosso a volontà!

L’operazione che chiudeva la mietitura avveniva con la bruciatura delle stoppie. Pratica in seguito vietata a causa dell’alta pericolosità e dell’alto rischio di propagazione degli  incendi.

Oggi tutte queste fasi vengono effettuate da un unico macchinario che richiede la presenza di pochissimo personale. Vero è che molta della fatica umana è stata sostituita dalla macchina, ma è altrettanto vero che è andata a morire un’altra opportunità per lavorare ,  aiutarsi  e stare insieme. Ben venga il progresso quindi, ma solo se serve a liberarci e ad offrirci più tempo per stare con noi stessi e per aumentare le occasioni per vivere in comunità.

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